venerdì 20 marzo 2020

Un film al giorno: Suspiria


Elena Pizzi Romano

Il paradigma del tema stregonesco

Suspiria è un film del 1977, diretto da Dario Argento e interpretato da Jessica Harper, Stefania Casini, Barbara Magnolfi e Alida Valli.
La storia, ormai nota ai più, ruota attorno alle vicende della giovane Susy Benner, recatasi in Germania, presso la prestigiosa accademia di danza di Friburgo, per perfezionare le sue capacità artistiche, la quale assiste a uccisioni al limite del paranormale, estremamente cruente e inspiegabili. 
I due punti di forza della pellicola più acclamata di Argento sono l’estetica visionaria e l’astrattismo espressivo. L’uso dei colori, la bellezza enigmatica e d’impatto degli ambienti, la creatività con cui si delinea uno scenario iconico e ammaliante ipnotizzano lo spettatore. La teatralità della recitazione, la colonna sonora indelebile e incalzante, il peso oppressivo del respiro, l’atmosfera irreale, avvolta di mistero, il richiamo sottotesto all’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam conferiscono alla narrazione elementi preponderanti della sfera dell’inconscio, dell’ignoto, rievocando opere artistiche interamente focalizzate sulla complessità della mente umana, come quadri di Dalì, Magritte, Ernst e Miró. All’interno della pellicola vi sono anche omaggi alla letteratura favolistica e allegorica e un’influenza che mi appare lapalissiana è la scuola esoterica steineriana. 
In conclusione, ritengo che Suspiria meriti la fama di cult del genere horror per la sua ricchezza di suggestioni e per la sua destrezza nello sconvolgere e sedurre colui che assiste alla rappresentazione scenica. 

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Maria Elena Prudente
Un nuovo linguaggio per Suspiria

Tutti noi conosciamo Suspiria, film horror di Dario Argento del 1977, che sia per la penetrante colonna sonora o per la sua celebrità. «Una giovane americana si trasferisce in Germania per entrare in una prestigiosa scuola di danza, per poi scoprire che questa è la sede di una congrega di streghe»: al suo debutto, e per anni a venire, questa storia turbò genuinamente le menti del pubblico. 
Tuttavia, uno spettatore di oggi, abituato ad effetti speciali impeccabili, non lo accoglierebbe con lo stesso stupore, e anche la narrazione gli risulterebbe di difficile comprensione, dato che Argento cela per tutto il film ciò che sta realmente accadendo: è proprio questo straniamento che oggi ci fa accogliere il film con un certo disagio. Nonostante ciò, le immagini psichedeliche e la teatralità della recitazione di questo cult del cinema horror hanno acquisito col tempo un nuovo fascino, ed è difficile ricreare un'atmosfera tanto suggestiva.
Il remake del 2018 di Luca Guadagnino è forse l'erede più riuscito che potessimo aspettarci. Certamente è più appetibile per un pubblico moderno: Guadagnino crea un quadro più coerente e realistico, approfondendo alcuni aspetti della trama che erano stati marginalizzati da Argento per dare spazio ad un universo di suggestioni, aggiungendo nuove sottotrame e rivelandoci quasi da subito quello che invece nell'originale era mostrato solo alla fine.
L'estetica non fa più leva su colori intensi e sgargianti, ma gran parte della bellezza visiva nel film è nelle mani delle due ipnotizzanti attrici protagoniste, Dakota Johnson e Tilda Swinton (già muse del regista in A Bigger Splash). Una novità è la carica omoerotica, impronta caratteristica del cinema di Guadagnino, che ben si abbina all'aura rassicurante che emana la nuova versione di Madame Blanc. Anche se i personaggi si sono addolciti, non manca il senso del grottesco, che fin da subito si fa sentire e si accentua sempre di più, strizzando l'occhio all'originale con alcuni effetti piuttosto surreali.

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Chiara Maria Grasso
Suspiria (2019) di Luca Guadagnino 

Quante volte, in questo strano periodo di quarantena forzata, in uno scenario che ci sembra a dir poco 
post-apocalittico, ci è capitato di dire: «sembra di essere in un film»? Ebbene, per allontanare ogni visione pessimista o terrificante, abbiamo deciso di esorcizzare, da bravi allievi del teatro greco, la paura con la paura. "Pietà e terrore" che solo un regista camaleontico e contemporaneo come Guadagnino può offrirci nell’abbandonarsi alla stesura delle scene di Suspiria. Il film, non è, in realtà, tutto merito dell’occhio di Guadagnino, ma è ispirato ad una storia molto più antica e suggestiva. La trama originale, infatti, fu scritta nel 1845 dall’inglese Thomas de Quincey in seguito al soggiorno nella casa dei conti Imbonati a Milano che all’epoca si diceva infestata. Lo scrittore, infatti, fu ispirato proprio dai sogni che egli fece nell’abitazione lombarda nei quali, dichiara lui stesso, gli fece visita la dea latina Levana, che gli presentò le tre streghe protagoniste del suo romanzo e del film di Guadagnino (e non solo), Mater Lacrimarum, "Nostra Signora delle Lacrime", Mater Suspiriorum, "Nostra Signora dei Sospiri" (da cui il titolo Suspiria) e Mater Tenebrarum: "Nostra Signora delle Tenebre". Prima di parlare del capolavoro del regista italiano, però, è bene prendere in considerazione quello che in realtà è il primo film in assoluto girato sulla leggenda delle "Tre Madri": Suspiria di Dario Argento del 1977 dal quale però, sicuramente, Guadagnino viene a conoscenza della trama a lungo sconosciuta al pubblico, ma che è da lui completamente riadattata. Il film di Argento, infatti, non si sofferma più di tanto sulla trama, che ci appare alquanto sconnessa, e sul tema delle streghe, che sembra quasi messo in secondo piano, ma piuttosto sull’estetica al contempo luminosa e grottesca che diventa, in quegli anni, manifesto del cinema horror degli anni 70. Quindi, nell’analisi del film di Guadagnino, quest’ultimo apparirà quello che con il tempo è diventato non solo, un cimelio del museo cinematografico, ma il fondamentale punto di partenza di Guadagnino. Ovviamente, la differenza sostanziale delle due trasposizioni cinematografiche, è che quella più recente, anche dal punto di vista tecnico e non solo interpretativo, ci offre molta più modernità (automaticamente e d’istinto molto più facilmente apprezzabile) anche per quanto riguarda il cast, pieno di attori abbastanza noti tra cui le protagoniste interpretate da Tilda Swinton, Helena Markos, appunto, la "Mater Suspiria" e Dakota Johnson, celebre protagonista della saga 50 sfumature di…, Susie Bannion. Ciò che, però, potrebbe accomunare le due versioni è l’allusione al teatro, che in Argento rivediamo soprattutto sotto il punto di vista della recitazione che, per un grande schermo appare alquanto esagerata ed eccessiva, dunque, non abbastanza realistica come, invece appare quella del cast di Guadagnino e, invece, in quest’ultimo, nella suddivisione in "atti". Ciò che, invece, creerebbe un netto contrasto è sicuramente l’atmosfera e la concezione di "paura". Quello di Guadagnino, infatti, come già ci aveva abituato con un altro suo capolavoro cinematografico Chiamami col tuo nome è un horror immerso nella foschia del "non-detto", dell’esoterico, dell’occulta pretesa di classificarsi come horror, o, quantomeno, di aderire completamente alla definizione classico, presentandosi, non più come ostentatamente pauroso, ma quasi "umano". Se nel film del ’77 le streghe erano state accantonate, Guadagnino le pone fin dall’inizio al centro della scena soffermandosi su elementi evocativi della tradizione riguardante le streghe e il modo in cui, soprattutto nel quindicesimo secolo, sono state raffigurate: i capelli lunghi e rossi della protagonista, gli abiti antiquati e le gonne troppo lunghe anche per la Berlino del secolo scorso, oppure, nelle scene finali i costumi di scena e il palcoscenico su cui si muovono le ballerine che rimandano chiaramente ai Pentaconi sabbatici. Più che su quest’estetica, che nasce comunque con la caccia alle streghe di stampo inglese come il racconto originale, il film si basa soprattutto sul codice della danza, anch’esso di sfondo e presentato come pretesto nella versione di Dario Argento. Il contesto accademico, infatti consente a Guadagnino di costruire meglio l’ambiente e il concetto di "congrega", anch’esso legato al mondo delle streghe, e che, come ogni gruppo ristretto, al di fuori della realtà (quasi come farebbe Bertolucci), anche questa ha un proprio linguaggio: quello della danza che è parte integrante del film e si presenta quasi come rituale antico delle streghe che è da loro usato per esercitare il loro potere. Quindi, ad un primo livello di lettura, quello della congrega può essere considerato un’organizzazione moderna in cui far rivivere il mistero delle streghe con tutte le caratteristiche annesse e connesse, riprese sia dalla tradizione biblica che da quella classica, come lo stesso scrittore inglese fa. Quest’aspetto, però, viene esasperato completamente da Guadagnino che, alla fine, ci mette quasi davanti ad un rito dionisiaco, un’orgia bacchica, che dovrebbe sconvolgerci, ma ci affascina allo stesso tempo: ne sono la prova, non solo la scena finale, ma anche l’eccesso nel bere e nel mangiare del momento prima dello spettacolo, il trucco della protagonista presentata quasi come vittima sacrificale, ma anche dalla danza in sé, che non rispetta i canoni rigidi della danza classica, ad esempio, ma, proprio perché "danza incantatrice", anima le ballerine in modo che loro sembrino come invase dallo spirito della magia su loro esercitata, la quale si rispecchia anche nella musica priva di parole e "sinistra", tanto da richiamare sia la tradizione classica, che quella più moderna delle streghe e dei loro riti definiti addirittura "satanici". Proprio perché Guadagnino ci vuol lasciar intendere molte cose e non sempre è esplicito nei suoi intenti, il film si presta, in realtà, a più interpretazioni, oltre che a quello della trasposizione in chiave moderna di un mondo utopico di streghe. Come ci suggeriscono le condizioni della prima protagonista che appare sullo schermo, Patricia, la danza e tutta la congrega di streghe, diventano anche motivo di delirio psicologico: profondità che, invece, in Argento manca e che, invece, in Guadagnino è ciò che, più che del sangue e delle riprese è quello che ci spaventa. Il delirio di Patricia, dunque, è, si, il delirio di una ragione che non trova risposte nel mondo da noi conosciuto, ma che si realizza, quasi come una vera e propria psicosi, nel momento in cui tutto ciò che credevamo finzione, gli incubi, il male e la violenza, si fa così radicata nella mente e nella realtà di un individuo che nel suo delirio «dice una bugia che è verità». Quello che succede alle protagoniste, infatti, è una sorta di violenza psicologia che trova appagamento nel codice apparente della stregoneria, nei sogni che, prepotenti, si insinuano nella loro mente creando incubi e addirittura convulsioni (probabile allusione all’esperienza dell’autore della legenda delle "Tre Madri" che ne ha ispirato il racconto). Oltre a ciò, Dakota Johnson interpreta un personaggio piuttosto caratteristico, non solo per il destino che le spetta, ma soprattutto perché è più delle altre, perché più inconsapevole di tutte, vittima dell’"incantesimo": l’incantesimo di un amore che, alla fine, si impossessa ed eviscera in corpo e gli consente di provare un piacere nauseante (che, poi, è lo stesso sentimento suscitato nello spettatore) di un bacio che risucchia l’anima e da potere solo ad una delle due parti, quasi come un "bacio di Giuda". L’ultima interpretazione da evidenziare, infine, è quella che emerge anche da alcune battute scambiate da alcuni protagonisti che, invece assistono dall’esterno e non sono vittime delle Tre Madri e tendono a vedere la situazione da un punto di vista "umano", paragonando la congrega al regima fascista: basato sui simboli, sulla pressione psicologia, apparentemente nascosta e innocua o, molto più incisivo, dal fatto che qualunque strega ci sia al comando, debba necessariamente eliminare tutti coloro che vogliono o potrebbero eliminare il regime da loro costituito. Inoltre, quest’interpretazione, ci viene suggerita anche dal fatto che le ragazze sono forzatamente recluse nel palazzo: un elemento che ritroviamo anche in un altro film con il quale Suspiria può essere confrontato per la stessa interpretazione che è Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini (anch’esso intrecciato con la credenza biblica, con una moralità imposta, con la violenza, che in Pasolini, però, non è celata con alcun incantesimo). Quello che, dunque, in ultima analisi proporrei come punto d’incontro dei due film appena citati è il fascino apparente e, in seguito, la tirannia che sempre si rivela quando, forse, è troppo tardi ed è ormai così imponente che lascia spazio solo per l’unica volontà che rimane (che paradossalmente dipende da un organo involontario per il corpo, ma forse, non per la mente) quella di morire; o meglio, come direbbero le streghe di Guadagnino, sopravvissute o meno, "diventare come Helena Margos".







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