lunedì 23 marzo 2020

Un film al giorno: Fantozzi


“Un film grottesco è un film che si basa sulla narrazione di eventi assurdi e surreali attraverso la deformazione di alcuni aspetti della realtà … Nella maggior parte dei casi …  è una critica nei confronti della società, di un sistema politico, di un personaggio. Tale critica avviene attraverso la ridicolizzazione dell'elemento preso in considerazione, rendendolo eccessivo e stravagante. Si può considerare il film grottesco un sottogenere del film drammatico, anche se non mancano evidenti riferimenti al comico.” 
Questa è, secondo Wikipedia, la definizione di uno dei generi cinematografici più interessanti e dimenticati nel panorama del grande schermo contemporaneo.  Dal kubrickiano Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba all’italianissimo Fantozzi  il cinema del bizzarro ha sempre regalato spunti di riflessione molto profondi, conditi da risate ed irriverenza.
È proprio sull’opera di Paolo Villaggio che mi vorrei soffermare, in particolare sui primi due capitoli Fantozzi ed Il secondo tragico Fantozzi.
Entrambi i film seguono le disavventure del ragionier Ugo Fantozzi, interpretato dallo stesso Villaggio, impiegato in una grande azienda, dove dovrà vedersela, oltre che con la malasorte, anche con l’indifferenza dei propri colleghi, tra cui Filini (Gigi Reder), e gli abusi dei suoi superiori.
Queste due pellicole dal sapore amaro e pungente hanno avuto una tale fortuna  da entrare per sempre nell’iconografia pop italiana, ergendo lo scalognato Fantozzi a vassallo di un’intera classe sociale troppo spesso sopita e dimenticata. 
La regia didascalica, ma dalle sfumature visionarie ed oniriche, vedesi il finale del primo capitolo, pregno di concettualità e simbolismo, di Luciano Salce ci immerge pienamente nel mondo grigio e beige del ragioniere, fatto di soprusi ed angherie, di sottomissione ma anche di rari tentativi di rivalsa. Quando, infatti, come un moderno Alfieri, Fantozzi si scaglia contro i “padroni”, il suo titanismo viene repentinamente soffocato da un qualcosa di troppo più grande di lui: “la Megaditta”.
In Fantozzi non vi è solo la caricatura di un impiegatucolo goffo ed ingenuo, ma vi è il ritratto di un’ Italia passata ma attualissima, quella degli anni '70-'80. Guardare Fantozzi è come osservare la nostra nazione posta davanti ad uno di quegli specchi deformanti del Luna Park, possiamo riderne, possiamo riscontrarne le goffe accentuazioni di alcune forme, ma continuiamo a riconoscerla e continuiamo a riconoscere noi stessi nella sagoma difforme del ragioniere.
La penna di Villaggio, autore dei libri di cui questi due lungometraggi sono la trasposizione cinematografica, funziona a strati. Egli delinea tre diverse chiavi di lettura delle sue opere. La prima, a cui si deve la larga diffusione dei film, è pregna di comicità fisica, immediata, che rende il tutto facilmente godibile da una larghissima fetta di pubblico. Che la saga di Fantozzi  sia fortemente nazional-popolare è fatto ben noto ed innegabile, ma anche molto positivo, poiché l’ampiezza di pubblico facilità la veicolazione di quelli che sono i messaggi più cupi e profondi che si celano negli altri due  strati. Il secondo è infatti saturo di malinconia ed amarezza, figlie della condizione del ragioniere e che si possono leggere nel suo sguardo languido e remissivo. Il grigio del vestito del “ragionier Fantocci” è lo stesso della “nuvola dell’impiegato” che lo perseguita, ma anche lo stesso degli uffici della megaditta e delle pareti della casa dove vive con la fedele moglie Pina. Ma è il terzo di strato quello che spaventa i più, e che genera quel desiderio di svilire tutta l’opera a semplice commedia banale e sempliciotta, ossia la feroce critica sociale. Villaggio si scaglia contro quella che era la società in cui viveva, una società che aveva  perso di vista i valori, gli obiettivi, una società figlia di un consumismo sempre più incidente, che aveva riempito tutti di frigoriferi, maxi televisori, polaroid, ma li aveva svuotati di certezze, di amore e di colore, riducendo tutto, ancora una volta, al grigio del vestito del ragioniere.
Più che una tragica recensione, questa è una lettera d’amore, ad un personaggio, ad un opera, ad un messaggio che fungono da monito per tutti noi, affinché non dimentichiamo mai  di guardare il mondo a colori.

p.s. Sono daltonico

Mario Pio Adamo


Nessun commento:

Posta un commento